Il canone Rai, oltre ad essere un'imposta tra le più insopportabili per i contribuenti, è “solo” un’imposta, non un corrispettivo dovuto rispetto ai costi di gestione, come avrebbe voluto la Rai che si è rivolta alla giustizia ottenendo un diniego.
Lo dice il Consiglio di Stato con una sentenza di alcuni giorni fa. Il ministero e il legislatore - secondo la sentenza - definiscono l’importo per la copertura dei costi, assicurando un servizio pubblico qualitativamente accettabile, bilanciato con la necessità di limitare la spesa pubblica. Il canone, quindi, non è un diritto per coprire i costi che la Rai dovrebbe sostenere nell’anno di riferimento.
Una sentenza che mette in luce l’ingordigia del gestore del servizio di informazione pubblica radiotelevisiva, convinto che il canone sia una sorta di bancomat a fondo perduto a cui attingere alla bisogna.
Questo accade perché la gestione di questo servizio è di fatto un monopolio, non affidato ad una gara in cui vince l’offerta ritenuta migliore. La Rai agisce non come un’azienda che fruisce del contributo pubblico, ma pretende che il canone sia modellato a suo beneficio. Eppure, il servizio Rai non si finanzia solo con il canone ma, in modo rilevante con la pubblicità, finanziamento che condiziona il mercato delle altre emittenti, ponendola in abuso di posizione dominante (abuso ignorato da tutte le autorità che negli anni abbiamo interpellato).
E’ l’ambiguità di questo servizio. E gli amministratori, sentendosi padroni e non gestori, hanno avanzato le proprie pretese. Un modello che, per esempio, si riproduce anche in come l’attuale maggioranza politica gestisce il governo: padrona e non amministratrice.
Ora il Consiglio di Stato ha messo un punto fermo. Premessa, a nostro avviso, di una riforma che porti ad affidare questo servizio a chi, privato ed esterno allo Stato, vinca un appalto.
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