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Smartphone. L’Europa lotta per non doverlo cambiare ogni due anni
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Articolo di Redazione
3 settembre 2017 19:42
 
 Esiste realmente l’obsolescenza programmata? Si progettano prodotti con l’intenzione che la loro vita utile finisca prima del dovuto perche’ siano rimpiazzati con altri? Puo’ darsi che ci siano aziende che lo facciano. Di certo e’, per ora, che i produttori non sono stati obbligati a dare informazioni su quando saranno attualizzati, per esempio, i telefonini o i computer. Qualcuno ha tenuto a certificare che tutti i propri componenti si possono riparare singolarmente, ma senza garantire che i pezzi di ricambio siano disponibili.
Il Parlamento europeo si e’ interessato alla questione: lo scorso mese di luglio ha chiesto alla Commissione di approvare metodi di incentivazione per la commercializzazione di prodotti di lunga durata. Tra questi la diffusione di un’etichetta volontaria che si aggiunga al sistema di garanzia dove si indichi il livello di qualita’ di tutto: stampanti, tablet, lavatrici, camicette… “Se non definiamo il problema e riconosciamo che ce n’e’ uno, e’ complicato trovare metodi perche’ lo si rispetti”, dice l’eurodeputato Marco Zullo, del gruppo Europa della Liberta’ e della Democrazia Diretta.
Ci sono imprenditori che stanno gia’ lavorando in questa direzione. Ad Alejandro Santacreu, fondatore dell’impresa finlandese Circular Devices si e’ rotto il tasto di accensione del suo Iphone a dicembre del 2012. Il telefono era in garanzia. Apple gli nego’ la possibilita’ di ripararlo. Santacreu scopri’ che il costo di questo tipo di riparazione era di 160 euro, mentre il costo del bottone non arrivava a 3 euro. La differenza di prezzo, penso’, probabilmente e’ dovuta al fatto che durante la riparazione sarebbero stati cambiati anche altri pezzi: il telefonino non era progettato per essere riparato. Due anni dopo Santacreu ha fondato Circular Devices con l’obiettivo di produrre un modello aggiustabile di smartphone modulare. “I finlandesi pensarono che fossi un po’ pazzo: Nokia cade a pezzi e tu vuoi fare in Europa telefonini del tipo modulare”, dice specificando che lo sviluppo di PuzzlePhone continua. Il suo lancio era previsto per questo anno, ma ammette che non ce la fa. Aspetta di aver concluso il progetto.
L’idea di creare smartphone di questo tipo, la cui vita utile e’ potenziamente piu’ lunga, e’ diventata molto popolare negli ultimi quattro anni e promette di essere rivoluzionaria. Anche Google si era lanciato in merito con Project ARA, un progetto che ha abbandonato allinizio dello scorso settembre. Tra le piccole start-up che hanno cominciato a lavorare in merito, solo l’olandese Fairphone ha cominciato a commercializzare un telefonino completamente modulare. Dalla sua sede di Amsterdam, Bibi Bleekemolen fa sapere che la sua azienda, il cui andamento era in difficolta’ nel 2015, ha venduto qualcosa come 750.000 Fairphone 2 ed ha incassato 18 milioni di euro. Fairphone 2 e’ il secondo modello prodotto dalla compagnia e risolve, cosi’ come dice Bleekemolen, un errore commesso con il primo, lanciato nel 2013. “All’inizio ci eravamo conformati ad un progetto non modulare prestabilito e l’azienda che lo assemblava decise di smettere di produrre smartphone”, spiega. Risultato: alcuni pezzi per le sostituzioni di Fairphone1 non sono piu’ reperibili. Un’obsolescienza involontaria a cui Fairphone spera di aver trovato una soluzione.
Le difficolta’ incontrate da queste imprese suggeriscono che non e’ facile cambiare sistema di produzione. Il fatto che Google abbia rinunciato alla sua iniziativa fa venire il sospetto che questo tipo di produzioni non siano redditizie. Ma, e’ proprio cosi? Meta’ delle 3mila persone sentite l’anno scorso dal Comitato Sociale europeo ha ammesso di essere disponibile a pagare di piu’ per un telefonino con una certificazione che garantisca una maggiore vita utile. La percentuale e’ al 77% nel caso delle stampanti. Due anni fa, un’indagine di Gallup faceva sapere che solo il 2% delle persone a cui era stato chiesto, cambiava il proprio smartphone poiche' c’era un nuovo modello, mentre il 54% sosteneva di essere disposto a cambiarlo solo quando si rompe o si converte in un oggetto completamente obsoleto, e questo, approssimativamente, ogni due anni. “Tra i consumatori si percepisce una certa rassegnazione”, dice Zullo, “ma non c’e’ nessuna ragione perche’ debba continuare ad essere cosi’.
L’obsolescenza non e’ un fenomeno nuovo. Tornando indietro nella storia viene fuori che alcune imprese che la applicavano sono state quelle del cosiddetto Cartello Phoebus (tra General Electrics e Philips) che controllava il mercato delle lampadine dalla meta’ degli anni 20 fino alla fine egli anni 30. Il cartello decise che per far si’ che ci fosse un maggior consumo dovevano essere vendute lampadine che si incendiavano dopo 1.000 ore, mentre la possibilita’ permettevano di fabbricarle con una vita utile di 1.2000 ore. Questo tipo di speculazione e’ stat riconosciuta come pratica abusiva in Francia, dove il Parlamento ha approvato da alcuni anni una legge che prevede fino a 300.000 euro di multa per le imprese che la praticano. La legge si applica solo ai produttori francesi o non da’ indicazioni tecniche che possano facilitare la sua applicazione a fronte di una denuncia.
“Affrontare il problema sarebbe tanto facile introducendo nella normativa un test di durabilita’ dei componenti elettronici, cosi’ come si fa per garantirne la sicurezza”, dice Benito Moros, della Fundación Energía e Innovación Sostenible (FENISS). Questa organizzazione sostiene che una famiglia di quattro persone potrebbe risparmiare fino a 50.000 euro in tutta la vita se gli elettrodomestici durassero di piu’ o siano concepiti per essere riparati. Il Parlamento europeo ha stimato nel 2016 che la vita utile di un telefonino e’ di uno/due anni. Zullo sostiene che, in accordo con le ultime statistiche, si e’ ridotto a meno di uno. “Io faccio un esempio. Quanti telefonini buttiamo perche’ non possiamo cambiare la batteria?”, si domanda, e aggiunge: “E’ evidente che capovolgere le abitudini dei consumi e’ complicato, ma e’ anche vero che le aziende che operano in modo virtuoso sono una stretta minoranza”.

(articolo di Denise Zani, pubblicato sul quotidiano El pais del 03/09/2017)
 
 
 
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